DON’T STOP THE RAVE


(Articolo uscito sul sesto numero di Re Nudo Magazine)

La fotografia allegata è tratta dal libro “NEVER ALONE 1997-2004 Raving in Europe” di Cheyenne Clementi e Valentina Morandi, che ringrazio di cuore per la condivisione

Batti i piedi a tempo, sei circondato da sconosciuti che sono già diventati amici. Il senso di comunità ti avvolge in quello che sembra un antico rituale ancestrale, dove il ritmo delle percussioni scandisce le danze. Sei a un rave (o free party). Feste libere e, tendenzialmente, gratuite. Realizzate senza chiedere alcun permesso, per la sola esigenza di riunirsi e ballare sul ritmo universale della musica techno. Un canto corale che unisce tutte quelle voci underground che non riescono a riconoscersi e incasellarsi nei ritmi delle loro città.

Un richiamo al bisogno primordiale di tribalità; un rito e una cultura carichi di un immenso portato storico, politico e sociale, che riunisce da decenni tantissime sottoculture. Una collettività accomunata dal bisogno fisico e spirituale di danzare insieme, e dalla convinzione che la libertà non è tale se per ottenerla bisogna comprarsela.

La scena free party nasce negli anni ‘80 nel Regno Unito, trovando la sua massima espressione nei rave. Le dinamiche repressive del governo Thatcher rappresentano un terreno fertile per la crescita di questa cultura. Con l’abbassamento del tenore di vita delle classi più disagiate, i tagli all’assistenza sociale e la privatizzazione dei servizi le periferie iniziano a fare rumore.

A risposta di questa oppressione, per fronteggiare il caro affitti, ritorna il nomadismo hippie che porta alla nascita di una nuova e grande comunità di neotraveller. L’esplorazione e il viaggio si uniscono alla riappropriazione degli spazi abbandonati di periferia, per metterli a disposizione della collettività allestendo delle TAZ (Zone Temporaneamente Autonome).

Le prime feste autogestite nelle fabbriche abbandonate inglesi erano piuttosto diverse da come intendiamo ora i free party: era normale pagare l’ingresso o vedere dei buttafuori. Durante queste iniziative gli spazi si riempiono di muri di casse che si rifanno ai soundsystem giamaicani: sistemi audio portatili nati nella Giamaica post-coloniale e sfruttati da chi non poteva permettersi di ballare nei costosi ed esclusivi club nelle metropoli. 

Le feste sono un’alternativa di intrattenimento per ognuno, che critica e si oppone fortemente alle dinamiche capitalistiche, sessiste e reazionarie che permeano i contesti del divertimento di massa. Va contro il consumismo sfrenato da cui siamo bombardati ogni giorno: non ci sono dresscode, la consumazione obbligatoria, l’idolatria del DJ stile rockstar, la selezione all’ingresso, guardaroba o buttafuori. È espressione umana dell’esigenza di vivere la comunità davvero liberi, nel naturale sostegno reciproco e nella solidarietà. Dove i valori vengono trasmessi, come in famiglia, di generazione in generazione. Un movimento che è orizzontale e nasce dal basso: non ci sono simboliche autorità a dettare una linea ideologica. Una cultura che non tarda a ricevere il consenso e l’appoggio di migliaia di giovani da tutta Europa. 

Nei primi anni ‘90 il fenomeno rave inizia a decentrarsi rispetto alle TAZ delle warehouse britanniche. Con la forte repressione che colpisce il movimento, soprattutto dopo il rave di Castlemorton che porta all’emanazione del Criminal Justice and Public Order Act, le feste arrivano in Francia. Qui il concetto di zona autonoma si evolve e nascono i teknival: grossi rave che si formano grazie all’unione di più soundsystem e che, per diversi giorni o settimane, diventano vere e proprie città autonome. Capaci di unire traveller da tutta Europa che rappresentano e si identificano in molteplici sottoculture, ciascuna con la propria storia, etica ed estetica, anch’essa indicatrice di valori. 

Ritorna l’immaginario hippie del viaggio e della psichedelia. L’etica del riciclo, anche degli spazi, e dell’autogestione anarchica della cultura Punk e Cyberpunk: il No Future. L’istinto ribelle del Rock è invece un modello di resistenza e di sfida alle convenzioni, così come quello pirata in cui i raver si riconoscono ultimamente: con la sua attitudine anti-autoritaria e una profonda avversione per le restrizioni imposte. La narrazione urbana dell’Hip Hop introduce l’importanza della cultura di strada; il Reggae alimenta il desiderio di condivisione con il suo messaggio di pace, unità e consapevolezza sociale. Generi che tornano anche nella sperimentazione musicale, nella distorsione o nel campionamento diretto di tracce e suoni. 

A livello artistico è imprescindibile la contaminazione con le arti e lo stile di vita circensi. L’inclinazione alla creatività, l’eccentricità e le tipiche performance di giocoleria, acrobazie e danza sono sempre state accolte dal pubblico dei free party. Diventano uno spazio di scambio e celebrazione dell’arte e della cultura alternativa; emblema perfetto di multiculturalità, autogestione e nomadismo.

La festa diventa riconfigurazione della meta, un’esperienza fuori dall’ordinario che inizia con l’organizzazione del viaggio. Ci porta a scoprire luoghi e usanze, conoscere persone con le quali, altrimenti, saremmo difficilmente entrati in contatto. Insegna l’adattabilità e la tolleranza, la gratitudine e la creatività. Un atto di disobbedienza civile che è il rumore di tantissime categorie marginali della società che devono urlare per farsi sentire. Questo richiede una grande coscienza, consapevolezza ed educazione politica. I primi rave in Italia non erano gratuiti, come si è spesso portati a pensare ultimamente. I gruppi più politicamente attivi erano soliti richiedere le consuete cinquemila lire di contributo: chi allestiva i party si autofinanziava mettendo in gioco la propria libertà per quella degli altri e, spesso, non aveva modo di generare un rientro economico. D’altro canto i traveller, che spesso vendevano qualcosa all’interno della festa, erano più concentrati sul concetto di “free”.

L’elemento politico si fonde a quello spirituale, alla dimensione meditativa della danza e del senso di comunità. Pablito El Drito: DJ, storico ed esperto di questa cultura, afferma che “i raver devono credere nel potere traumaturgico della techno: è un rito purificatore che serve per riequilibrarsi”. Spesso le droghe amplificano questa esperienza e, nonostante non tutti naturalmente ne facciano uso, c’è un grande focus sull’antiproibizionismo che nasce proprio da questa consapevolezza. Essa, però, non prescinde i rischi associati al consumo; per questo nascono unità mobili e collettivi dedicati alla riduzione dei rischi, per minimizzare o eliminare la percentuale di danni che un comportamento rischioso comporta. La festa è di tutti, per questo c’è attenzione all’autogestione e alla cura degli altri.

Qui risiede la forza del movimento, e si vede nel sostegno reciproco tra partecipanti e crew (o soundsystem, prima chiamati tribe). Le feste diventano anche strumento per raccogliere fondi per le spese legali o aiuti umanitari, oppure per diffondere messaggi di speranza; come nel caso della tribe Desert Storm, che organizzò delle feste a Tuzla e Sarajevo mentre vivevano l’assedio. 

Nel corso del tempo il movimento ha avuto diversi declini e riprese, accompagnati da una disonesta disinformazione e strumentalizzazione delle notizie, volte alla mera demonizzazione del fenomeno. Dopo il decreto anti-rave torna forse una maggiore consapevolezza che negli ultimi anni era venuta meno rispetto alle origini della scena free party, che ora è più minacciata.

La repressione però non ha mai fermato i rave, semmai ne è stata motore. Un’amica e artista, parte di questo movimento, mi ha confidato di temere per le generazioni future, perché stanno correndo il rischio di perdere le feste. 

“Priveremmo loro della speranza di credere in un futuro migliore, dove le differenze convivono e dove è davvero possibile immaginare un domani senza barriere e discriminazioni. Mia sorella minore non sa cosa sia un rave, e non posso immaginare che rischi di non saperlo mai”

Continuiamo a raccontare i rave, salviamo i free party e la libertà di espressione di chi si ribella.

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