FEMMINISMO CON SELEZIONE ALL’ INGRESSO


“Lettera aperta a chi manifesterà l’8 marzo”. Una lettera di esclusione, piena di luoghi comuni e stereotipi, l’ennesima narrazione che riduce a minaccia tutto ciò che non rientra in una visione rigida e immutabile di genere. L’ennesima lista di accuse e giudizi nei confronti di comunità di cui chi la redige non è parte. 

Treccani, Femminismo: “Movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne; in senso più generale, insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una collocazione sociale paritaria in quella pubblica”.

Proporre “nuove relazioni tra generi” in una società così culturalmente variegata non può, per forza di cose, portare ad un unico punto di vista universalmente condiviso. 

Si uniscono alla lotta femminista donne cisgender ma non solo; ci sono donne trans femministe, uomini trans femministi, uomini cisgender femministi e così via. Ogni individuo con un’esperienza, personale e collettiva, differente l’una dall’altra. Per questo il nostro punto di vista non può essere l’unico o l’unico giusto.

Non si può combattere una forma di discriminazione praticando ulteriore discriminazione, per questo trovo meraviglioso che esistano sia realtà che parlano alle donne sia realtà che usano il linguaggio inclusivo: l’asterisco o questo schwa tanto odiato. Un bellissimo strumento nonviolento introdotto da una parte della comunità queer che, grazie ad esso, si sente rappresentata. La splendida opportunità di scelta. Che sia usato o meno, il linguaggio inclusivo non toglie nulla a nessuno, eppure scatena reazioni isteriche, come se riconoscere più soggettività fosse una minaccia invece che un’opportunità. Ma se l’identità si sente minacciata da un simbolo, forse il problema non è davvero la grammatica.

Trovo l’imposizione sempre sbagliata, sia dell’uso del linguaggio inclusivo (cosa che, comunque, io non ho mai visto); sia di una lista di regole che detta legge su come sia giusto portare avanti una lotta di tutte, tutti e tuttə. Perché puntare il dito contro intere comunità, screditando le loro battaglie, solo perché una manciata di singole persone porta avanti le proprie idee con violenza? Non è alimentando divisioni che si conquistano diritti comuni, tantomeno rispondendo con ulteriore violenza.

È triste e frustrante sentire chi si proclama femminista rivolgersi con parole d’odio a chi non la pensa allo stesso modo, portando avanti la riduttiva narrazione che dare voce ad altri individui che subiscono le stesse discriminazioni significhi escludere le donne. 

Che piaccia o no, “persone trans/non binarie” non sono un’unica entità che “cancella” le donne, perché all’interno di quelle comunità ci sono persone, storie, vissuti diversi. Non tutte le persone trans chiedono di partecipare agli sport femminili, non tutte supportano la medicalizzazione precoce, non tutte vedono il genere come un’identità individuale e scollegata dalla realtà materiale. 

Ci viene ripetuto con ossessione che “esistono solo due sessi!” Come se fosse la rivelazione scientifica del secolo invece che un concetto base di biologia. Ma perché escludere a priori tutto il dibattito sociologico e antropologico sull’identità di genere? Perché affrontare questioni sociali con risposte biologiche, ignorando completamente le scienze che studiano la società? L’identità di genere non è un’invenzione recente né una moda, e ridurre tutto a una formula cromosomica significa scegliere di non vedere la complessità dell’esperienza umana.

Ciò che mi affascina del femminismo intersezionale e del transfemminismo è l’attenzione a riflessioni che vanno oltre la propria esperienza individuale, ascoltando e abbracciando visioni diverse che non fanno parte del nostro vissuto. 

Rivolgersi in modo generale a “persone con utero” non cancella le donne, ma da voce anche a quelle persone che subiscono violenze e discriminazioni ogni giorno ma che non rientrano nei vostri stereotipi di genere femminile. Non vi si richiede di usare questa espressione a forza, nessuno ve lo impone. Volete parlare di donne e dei problemi sociali che affrontano? Benissimo, però lasciate lottare anche noi nel modo che riteniamo più giusto. Un corteo transfemminista non può e non deve essere una minaccia per le correnti femministe che portano avanti altre battaglie. Non vedo perché il tuo striscione “libere tutte” non possa stare nello stesso corteo dove il mio dice “liberə tuttə”.

“Oggi si spaccia per libertà il vendere il proprio corpo”. Io credo piuttosto che ciò che “si spaccia per libertà” sia, in realtà, proprio la libertà di farlo o meno; mentre vendere il proprio corpo rimane ciò che è: vendere il proprio corpo. Nessuna accezione positiva o negativa, ma personalmente trovo rivoluzionario questo libero arbitrio; in molte società non è minimamente pensabile. Mi va bene il disaccordo su questo punto, ma un comunicato che detta legge su cosa sia giusto o meno fare col proprio corpo è la cosa meno femminista che potessi leggere per l’otto marzo. 

Minimizzando il dibattito su temi come lo sfruttamento, la prostituzione, l’industria pornografica e riducendo tutto a un unico calderone per giustificare un approccio di cieco abolizionismo, che non risolverebbe il problema ma lo nasconderebbe. E chiudere gli occhi davanti alla realtà non è mai stata una strategia femminista.

Ancora una volta si sfrutta lo spazio mediatico per parlare poco di tutto e in modo riduttivo. Si citano temi divisivi e interessanti su cui nessuno ha la verità in tasca, ma in qualche modo il tono della lettera è dogmatico più che aperto alla discussione. Nessuna predisposizione al dibattito, magari con chi quelle esperienze le ha vissute o le vive quotidianamente.

Sogno un femminismo che crei spazio per il confronto con chi vive le stesse violenze invece che praticarle a sua volta, che riconosca la complessità della realtà invece di appiattirla a un’unica narrazione. Che comprenda che la libertà non può essere imposta dall’alto, che chi lotta per la propria autodeterminazione lo fa in modi diversi, con percorsi, esperienze e metodi diversi e che ciò non vuol dire cancellare qualcuno.

Un femminismo che sia lotta collettiva fatta di differenze, di discussione e di crescita. Che non si imponga come cerchia elitaria dalle regole rigide e reazionarie, o come gara su chi merita o meno di esserci. 

Se il vostro femminismo ha bisogno di escludere per esistere mi chiedo che tipo di libertà stia davvero costruendo. Si può davvero parlare di lotta se l’obiettivo è stabilire chi merita di esserci e chi no? Mi chiedo cosa ci sia di così minaccioso nel condividere lo spazio con altre voci. Forse il problema non è la loro esistenza, ma il fatto che non possiate più ignorarle.


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